12 gennaio 2010

Vineland - Thomas Pynchon

1984, Vineland, immaginaria cittadina della California: Zoyd Wheeler una volta all'anno si butta attraverso una vetrina; Frenesi, sua moglie, conturbante ex attrice underground, scompare nel nulla; Prairie, la figlia, è un'adolescente eccentrica e seducente. Intorno a loro, un universo improbabile ma reale in cui si muovono figli dei fiori e agenti dell'FBI, rockers e metallari, matti veri o presunti e intellettuali. Una straordinaria, grottesca, paradossale epopea degli anni della contestazione, il romanzo-denuncia di un grande autore della narrativa postmoderna.

Recensione

Entrare a Vineland (è il primo Pynchon che affronto) procura un immediato stato d'ansia. Sarà la prosa clamorosamente barocca dell'autore, sarà il fatto che è uno dei pochissimi che Harold Bloom (secondo alcuni Vate supremo della letteratura mondiale, per altri cialtrone baronale dedito alla cura del suo ormai lucrosissimo marchio di fabbrica) mette indiscutibilmente sugli altari che uno si chiede subito: "fu vera gloria o questo romanzo è immangiabile"? Il Re è nudo o sono io che non ne vedo i broccati?

Chiarisco immediatamente: Vineland è oggettivamente un romanzo illeggibile. Sul resto, poi, si può liberamente dibattere. Ad esempio sul cosa leghi insieme un critico letterario borghese, élitario e conservatorissimo con uno scrittore, osannato dai lettori di mezzo mondo, che con il suo stile distrugge ogni residua certezza del romanzo borghese, apre mondi che fino alla sua venuta non si erano ancora mai visti e, soprattutto, è così postmoderno che più postmoderno non si può? Perché a tal proposito mi torna in mente il caro vecchio (antico, direi quasi) Frederic Jameson che, tra le molte definizioni, individuava il postmoderno come una cartografia per le nuove strade che la nostra epoca ci apre davanti. Il suo lavoro di sociologo della letteratura gli faceva vedere il postmoderno come una sovrastruttura (in senso sociologico, appunto) e quindi un elemento della realtà da affrontare e studiare con adeguato spirito critico.

Di quella cartografia, Vineland fa ulteriore scempio, un passo avanti ancora che ci porta ad una mappa senza riferimenti, una mappa che si perde in essa stessa: pur iniziando in chiave realistica (per quel che può significare una tale definizione applicata a questo romanzo...), ben presto entriamo in una palude dove gli innumerevoli flussi si disperdono, tanto che non ha alcun senso pensare ad una trama o alla descrizione di personaggi. A questo proposito, un'ottima sfida sarebbe quella di prendere in esame uno dei capitoli centrali (e tra i più lunghi) del libro, quello che nell'edizione recensita va da pagina 153 a 222, e cercare di capire cosa accade, in che luogo, quando e soprattutto perché, chi parla a chi e chi altri risponde a quale domanda o sollecitazione.

In tutta sincerità, io non sono riuscito a capirlo (e sfido chiunque, purché in buona fede) e non mi sento, stavolta, di dire che il limite sia mio. Detto questo, è chiaro che lo scopo ultimo di Vineland è quello di denunciare il nostro stato di abitanti sperduti e inebetiti della nostra stessa epoca: partendo da un'America disfatta che compare magicamente a sprazzi nel delirio, Pynchon rappresenta una sorta di welfare della vacuità cioè un sistema di riferimenti, in questo caso ovviamente culturali, che redistribuisce una devastante povertà di argomenti fatta di Televisione (deisticamente sempre con la maiuscola), di musica squinternata e improbabile, di stili di vita devastanti e perciò devastati. Questo "total khéops" (tanto per produrre un'altra connessione postmoderna in quella mappa) viene rimescolato con le invenzioni assolute, con la pirotecnica creatività e con un impasto linguistico e stilistico davvero "unico" - e sia inteso, questo, nel bene come nel male - che fanno del romanzo una sorta di tempio assoluto. Sapere poi chi o che cosa stiamo adorando, è un altro paio di maniche.

Insomma, che oggetto è questo libro? Se a Pynchon possiamo chiaramente riconoscere di essere il padre putativo di un altro grande nome, quel David Foster Wallace che ha lasciato scie di orfani dappertutto, possiamo anche illuderci che Vineland non sia propriamente un semplice (si fa per dire!) romanzo ma tenti di essere quell'operazione che Wallace ha saputo portare a compimento in maniera magnifica: libro-digressione per antonomasia, universo-mondo senza alcun senso, in parte saggio (senza riuscirci mai davvero), in parte pura invenzione goliardica, assolutamente e totalmente autoreferenziale, Vineland sa mantenere siderali tutte le sue distanze da chi legge tanto da riuscire pienamente inafferrabile. La cordicella da tirare per riportarlo giù è quella della fiaba, fiaba che è quanto di più vicino si possa immaginare ad un libro così.

E allora eccoci dalle parti di Hans Christian Andersen e del suo "I vestiti nuovi dell'imperatore" nel quale le mirabolanti stoffe "avevano il potere di risultare invisibili agli occhi degli uomini sciocchi, o ignoranti, o di chi non era all'altezza della propria carica" (cito da un'edizione per bambini della Fabbri). Il ricatto che subiamo, da lettori, da critici, da appassionati di letteratura, è quindi quello dell'amor proprio ferito: siamo noi a non essere all'altezza?! Per me, confesso, Vineland è un gran libro. Smutandatissimo, perdinci: e il Re è nudo, chiappe al vento!

Dettagli del libro

  • Titolo: Vineland
  • Titolo originale: Vineland
  • Autore: Thomas Pynchon
  • Traduttore: Pier Francesco Paolini
  • Editore: BUR
  • Data di Pubblicazione: 2008
  • Collana: Scrittori Contemporanei
  • ISBN-13: 9788817202725
  • Pagine: 446
  • Formato - Prezzo: Brossura - Euro 10,80

1 Commenti:

  • 28 novembre 2011 alle ore 12:44
    Anonimo says:

    Assai interessante, grazie!

    Sono una ...lettrice recente di Pynchon, tanto recente che devo ancora cominciare! Ho acquistato L'arcobaleno della gravità e Contro il giorno.

    Buona lettura!

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